La diagnosi


 

La diagnosi della Sindrome X-Fragile avviene attraverso l’analisi di un semplice prelievo di sangue che può essere eseguito in molte strutture specializzate distribuite su tutto il territorio nazionale 

Alcune di esse offrono anche una consulenza genetica, cioè un genetista che segue il soggetto e i suoi genitori spiegando in cosa consiste questa patologia e consigliando quali altri membri della famiglia di origine di entrambi i genitori possano eseguire il test.

 

La diagnosi molecolare

La diagnosi molecolare della Sindrome X Fragile è una diagnosi diretta, che analizza cioè direttamente il gene responsabile o gene-malattia. Lo scopo è quello di individuare e definire con estrema accuratezza espansioni abnormi della regione di triplette ripetute CGG e caratterizzare lo stato di metilazione, e quindi lo stato funzionale del gene FMR1.

Per rispondere a questi due quesiti è consigliato l’uso combinato di due tecniche quali :

Amplificazione mediante la tecnica denominata Polymerase Chain Reaction o PCR

Southern blot e ibridazione con sonda molecolare marcata

L’ amplificazione PCR permette di definire con precisione il numero di ripetizioni CGG, attualmente anche oltre il limite della premutazione, ma tipicamente non fornisce alcuna informazione sullo stato di metilazione del gene.

Il Southern blot consente un’analisi completa del gene FMR1, sia per quanto riguarda la componente di espansione delle sequenze ripetute, benché in maniera meno precisa rispetto alla PCR, sia per quanto attiene lo stato di metilazione.

 

La diagnosi prenatale

Diagnosi Prenatale si intendono tutte quelle indagini atte ad indagare lo stato di salute dell’embrione e del feto.

La diagnosi prenatale di Sindrome X Fragile viene proposta, secondo quanto indicato dalle linee guida internazionali, a donne per le quali sia stato precedentemente accertato lo stato di portatrice di premutazione e/o mutazione completa FMR1.

L’analisi molecolare X Fragile viene eseguita su DNA estratto da amniociti o villi coriali (CVS), ottenuti con procedure invasive quali amniocentesi o villocentesi .

L’amniocentesi, prelievo di liquido amniotico, viene eseguita tra la 15° e la 19° settimana di gravidanza. Prima di poter eseguire l’indagine, gli amniociti presenti nel campione prelevato vengono isolati e messi in coltura per 10/15 giorni; questo tempo di latenza, che sposta ulteriormente il momento della diagnosi, rappresenta lo svantaggio relativo di tale procedura.

La villocentesi è la tecnica che consente il prelievo di villi coriali, porzione di placenta di origine fetale.

Questo esame si effettua tipicamente tra la 9° e la 12° settimana di gestazione; il materiale prelevato non necessita di coltura, e ciò implica che il risultato del test genetico possa essere ottenuto in epoca più precoce rispetto all'amniocentesi.

Per la diagnosi di mutazioni del gene FMR1 tuttavia l’epoca di esecuzione della villocentesi viene frequentemente ritardata per permettere di studiare l’eventuale componente di metilazione di una mutazione che risulta difficilmente apprezzabile prima del compimento della 12° settimana gestazionale.

Possibili alternative alla diagnosi prenatale su amniociti o villi coriali sono rappresentate dalle indagini genetiche pre-impianto (Preimplantation Genetic Diagnosis/PGD) e dalle più recenti diagnosi preconcepimento (Preconceptional Genetic Diagnosis/PC).

 

Diagnosi genetica pre-impianto

La diagnosi genetica pre-impianto è una tecnica eseguita al terzo giorno dalla fecondazione, su embrioni allo stadio di 7/8 cellule. Identifica alterazioni genetiche di origine paterna o materna.

Gli embrioni, ottenuti con fecondazione in vitro, vengono sottoposti a biopsia mediante la quale una o due cellule vengono rimosse e analizzate per una specifica malattia genetica.

Se il DNA estratto dalla cellula non presenta l’alterazione specifica, l’embrione risulta non affetto; in questo caso l’embrione viene trasferito in utero ed inizia la gravidanza.

 

Diagnosi pre-concepimento

Recentemente è stata messa a punto una tecnica che consente di identificare, prima del concepimento di un embrione, una mutazione genetica, solo di origine materna, a livello del primo globulo polare (1PB).

Il termine globulo polare definisce una cellula priva di significato biologico, che si forma durante il processo di maturazione dell’ovocita, ed è caratterizzata da un corredo genetico speculare a quello dell’ovocita stesso.

Se l’analisi genetica del globulo polare rileva la presenza della mutazione materna, ciò significa che l’ovocita ne è privo e viene ritenuto normale.

Viceversa, se il 1PB non evidenza la mutazione materna, questa deve essere presente nell'ovocita.

Solo ovociti il cui primo globulo polare risulti mutato verranno selezionati e fecondati, mediante una procedura di fecondazione in vitro.

In Italia la legge 40/2004 consente l’applicazione di tale tecnica, perché effettuata su materiale extra-embrionale.

Questa tecnica, che offre il vantaggio di non agire sull'embrione, presenta dei limiti intrinseci rappresentati principalmente dai possibili fenomeni di ricombinazione, con scambio di materiale fra i cromosomi omologhi, che avvengono durante la prima divisione meiotica.

La frequenza con la quale tale fenomeno si verifica varia in funzione della distanza dal centromero della regione analizzata.

La frequenza di ricombinazione, per il gene FMR1, localizzato all'estremità distale del braccio lungo del cromosoma X, è elevata e questo può ridurre notevolmente (anche del 50%) il numero di ovociti utilizzabili.

Infine, per qualunque procedura di fertilizzazione in vitro per donne portatrici di premutazione FMR1, bisogna tenere ben conto del fatto che esse incorrono in un maggior rischio di menopausa precoce e possono rispondere con minore efficacia ad una stimolazione ovarica. Una bassa risposta alla stimolazione ovarica incide sul numero di ovociti disponibili per l’analisi genetica.

 

Dr. Roberta Polli

Dr. Alessandra Murgia 

 

Dal sito della Associazione Italiana sindrome x fragile Onlus  www.xfragile.net